Tisbe e Piramo


Nell’aria tiepida della primavera, lievi refoli di vento sembrano gingillarsi tra di loro in un arcano gioco di bambini e, dondolando mollemente, impregnano la natura di profumi dolciastri che sollecitano i sensi e trasportano con sé l’odore intenso di turgide more.

Nere come la profondità del destino, rosso cupo come l’intensità dell’amore...


Il frutto rosso dell'albero di gelso: 
simbolo dell'amore vero

Il gelso, pianta magica, è un frutto legato a un’antica leggenda mediterranea, diffusa nella zona meridionale dell’isola, con molta probabilità quella di Ragusa, che, srotolandosi nel lungo filo della tradizione, è intimamente collegata con un’antichissima leggenda orientale in cui si narra la triste vicenda amorosa di Tisbe e Piramo che, in seguito, affascinò anche il mondo greco. 

Il gelso era un frutto consacrato al dio Pan e considerato simbolo di sapienza e di intelligenza.

Stessa considerazione gli fu tributata presso i romani tanto che lo scrittore Plinio il Vecchio definiva il gelso “Sapientissima arborum” il più saggio tra gli alberi, perché con pazienza attende che abbiano termine le ultime gelate prima di fiorire, in questo modo è l’ultimo a sbocciare e il primo a maturare la frutta che, protetta dagli ultimi freddi, resta a lungo sui rami. Infatti le more scure maturano a ondate successive fino alla soglia dell’autunno.

La bellezza dolorosa di questa sfortunata storia d’amore tra i due giovani innamorati, e del loro gesto estremo con cui sacrificano la propria vita per l’altro, ammaliò anche il poeta Ovidio che la raccontò nel libro quarto delle sue Metamorfosi e, nel Medioevo il grande poeta Dante Alighieri la ricorda nel Purgatorio con delle bellissime terzine:

“Come al nome di Tispe asperse il ciglio

Piramo in su la morte, e riguardolla

Allor che ‘l gelso diventò vermiglio”.


L’incanto crudele e infausto dei due amanti, ha attraversato i secoli e non ha mai smesso di far vibrare gli animi sensibili che spesso si sono ritrovati in una situazione di contrasto così come quella vissuta da Tisbe e Piramo.

I due ragazzi appartenevano a due famiglie antagoniste, che per impedire loro di frequentarsi, li rinchiusero nelle loro stanze senza però accorgersi che queste erano separate solo da un muro, su cui c’era una piccolissima fessura attraverso la quale i due continuarono a vedersi ogni giorno. Ma si amavano così tanto che non sopportavano l’idea di stare separati, avevano bisogno di toccarsi e di baciarsi. 

Impazienti, così come lo sono i giovani innamorati, escogitarono un piano: Tisbe avrebbe raggirato la sua nutrice mentre Piramo si sarebbe accordato con il suo sorvegliante fingendo un’aggressione per impadronirsi delle chiavi della porta.

Ma per una drammatica ironia del destino, questo incontro tanto desiderato si trasformò nella fine del loro amore.

Riusciti a scappare, girovagarono per le campagne siciliane, fino a che non si riposarono sotto un albero di gelso nei pressi di una fonte. Al chiarore della luna, si amarono per tutta la notte.

Alle prime luci dell’alba Tisbe si allontanò per dissetarsi presso la fonte ma si imbatté in una leonessa con il muso tutto sporco di sangue, poiché aveva appena divorato la sua preda. Impaurita, Tisbe scappò via e nella fretta lasciò cadere il velo con cui aveva nascosto il viso.

La belva si avvicinò incuriosita e, dopo aver annusato lo scialle, lo addentò strappandolo e imbrattandolo di sangue.

Piramo, svegliatosi poco dopo e non vedendo accanto a lui la sua amata si alzò per cercarla ma ,alla vista del velo sporco di sangue e della leonessa che beveva alla fonte, si disperò credendo che la sua amata fosse stata aggredita e uccisa dalla belva. Affranto per aver perso per sempre il proprio amore e tormentato dall’angoscia di non poter vivere senza, sfoderò il pugnale e se lo conficcò al centro del petto.

Ma, mentre giaceva morente a terra in una pozza di sangue, sopraggiunse Tisbe che, dopo aver visto la leonessa allontanarsi, era ritornata indietro. Vedendo il suo amato agonizzante, si piegò su di lui piangendo in preda alla disperazione, e, non potendo sopportare nemmeno lei una vita senza di lui, compì anche lei un gesto estremo. Estrasse il pugnale dal corpo di Piramo e si trafisse, adagiandosi accanto a lui.

Il sangue, simbolo del sacrificio ultimo del loro amore, penetrò nel terreno e fu assorbito dalle radici, nutrì l’albero e, da quel giorno, le bacche da bianche divennero nere.

Ovidio narra che gli dei, visti i due corpi abbracciati privi di vita ai piedi di un gelso, provarono tale pietà che non vollero che il loro sangue inzuppasse inutilmente la terra e lo fecero assorbire dalle radici dell’albero.

Questa struggente leggenda, tramandata per secoli, narrando l’origine del gelso nero, al tempo stesso diviene metafora dell’amore puro ricordando in eterno un sentimento così forte da non poter essere spezzato nemmeno con la morte.

In ogni mora è racchiuso il segreto più intimo dell’amore vero, intenso come il rosso del sangue con cui fu suggellato e forse anche per questo le more lasciano macchie indelebili che non si cancellano così come la passione di Tisbe e Piramo.

I due giovani, divengono così simbolo archetipico dell’amore incondizionato che non si può opprimere o annientare, perché la libertà dei propri sentimenti non si lascia mai rinchiudere nella gabbia delle convenzioni sociali o degli interessi del mondo materiale.

Ecco perché quando stringiamo tra le dita una mora, il suo colore vivido non è un segno di dolore luttuoso ma deve ricordarci che ognuno di noi ha il diritto e il dovere di lottare sempre per il proprio amore.



Questa sezione è stata interamente curata dalla nostra esperta, la Dott.ssa Eliana Vivirito